Conosco Roberto Casarin da quando aveva tredici anni. A parlarmi di lui era stata una collega di scuola che gli si era rivolta per un consiglio. A spingermi verso l’abitazione di Roberto, lo dico francamente, era stata la curiosità, attenuata tuttavia da una buona dose di scetticismo. Non ho infatti mai creduto ai taumaturghi o ai carismatici e l’idea che un bambino potesse distribuire consigli alle persone adulte mi faceva sorridere. Con una intuizione che non so spiegare, quel ragazzino aveva avvertito il mio scetticismo…
Sono andata da lui, e quella volta piena d’angoscia, anche nell’estate del 1980, appena appreso da una telefonata che mia madre, anch’essa già insegnante, era caduta malamente nella sua casa di Savona e giaceva in fin di vita all’ospedale. Era stata colpita da un infarto e disperavano di salvarla. A mio padre, anzi, avevano consigliato di riportarla a casa con un’ambulanza per farla morire nel suo letto. Avevo spiegato a Roberto i fatti, e, con comprensibile disperazione, ma anche un po’ assurdamente, lo avevo scongiurato di fare qualcosa perché mia madre si salvasse. Egli mi aveva ascoltata e, alla fine, mi aveva chiesto di correre a casa e di portargli una pezzuola. Aveva tenuto quella pezzuola qualche istante fra le mani e, restituendomela, mi aveva detto: “Adesso, senza affannarti, vai da tua madre e mettigliela sul cuore. Domani starà meglio e fra qualche giorno guarirà”. Io avevo fatto quanto aveva detto e, sotto lo sguardo incredulo dei medici, mia madre ch’era ormai agonizzante, si era ristabilita in poche ore”.
Graziella Dotta
Tratto dal settimanale “Gente”, dicembre 1981
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